Proteste antirazziste

Ora tocca alla polizia e alla pubblica amministrazione adottare misure concrete.

Nell'estate 2020 vi proponiamo un’intervista ad Alma Wiecken (AW, Responsabile della CFR) e una ad Amina Benkais-Benbrahim (AB, Bureau cantonal pour l'intégration des étrangers et la prévention du racisme, VD), con le quali abbiamo discusso dell'impatto delle proteste antirazziste di inizio estate sul loro lavoro.

 

Il movimento di protesta sorto in Svizzera a seguito della morte dell’afroamericano George Floyd chiede che siano riconosciuti il razzismo, la violenza e il profiling razziale imputabili alla polizia, e che le persone di colore siano maggiormente rappresentate all’interno delle istituzioni e dei media. Da queste rivendicazioni derivano anche richieste concrete alle autorità in generale e alla Sua istituzione in particolare?

AB: La morte di George Floyd ha avuto l’effetto di tematizzare su scala mondiale una tra le tante espressioni del razzismo. Purtroppo il razzismo non è un fenomeno nuovo, ma è sempre esistito e mutato assumendo forme molteplici e variegate.
Riguardo al movimento di protesta svizzero legato al caso Floyd, il BCI non ha ricevuto nessuna richiesta connessa in modo specifico alle rivendicazioni in questione. D’altro canto non è possibile negare l’esistenza del razzismo nel nostro Paese. Diversi studi condotti in Svizzera confermano che discriminazione e disparità di trattamento sono presenti in diversi ambiti della vita, quali la ricerca di un impiego e in particolare di un alloggio. Queste diverse espressioni del razzismo non hanno un nesso diretto con quanto è in corso negli Stati Uniti, ma ciò non vuol dire che non sia necessario agire e restare vigili.

Come? In Svizzera, la prevenzione del razzismo è entrata a far parte delle politiche pubbliche solo di recente. Nel Cantone di Vaud, per esempio, ha la sua base legale nella legge cantonale sull’integrazione degli stranieri e la prevenzione del razzismo (Loi cantonale sur l’intégration des étrangers et la prévention du racisme, LIEPR), adottata nel 2007, che fissa quali obiettivi espliciti non solo l’integrazione ma anche la prevenzione di qualsiasi forma di razzismo (art. 1). Si tratta di una legge «pionieristica» in Svizzera. Questa base legale, insieme all’inserimento della prevenzione delle discriminazioni nei programmi d’integrazione cantonali hanno agevolato l’attuazione, nella maggior parte dei Cantoni, di strumenti per lottare contro il razzismo: informazione e sensibilizzazione dei diversi destinatari, sostegno di progetti e istituzione di un servizio di consulenza per le vittime di discriminazione.

AW: Sì, assolutamente. Il dibattito sul profiling razziale è importante e necessario, anche se non si tratta di un problema nuovo. Ora tocca alla polizia e alla pubblica amministrazione adottare misure concrete. A mio parere, occorre innanzitutto implementare procedure che permettano di rendere visibile il fenomeno. Un problema, infatti, è che questa pratica discriminante è difficile da documentare e che ad oggi non viene condotto nessun monitoraggio in proposito. Tra le persone interessate, tantissime riferiscono di esperienze di profiling razziale da parte della polizia, mentre quest’ultima contesta regolarmente di praticarlo. Ad esempio sarebbe interessante valutare l’introduzione di un sistema di «giustificativi», nell’ambito del quale vengono messi per iscritto ora, luogo e motivo del controllo di polizia. Inoltre è fondamentale che a fronte di episodi di profiling razziale siano disponibili meccanismi di ricorso indipendenti e che nell’eventualità di una denuncia penale contro la polizia l’autonomia della procedura sia garantita in ogni caso. Per quanto riguarda la necessità di migliorare la rappresentanza delle persone di colore, tutte le istituzioni pubbliche sono chiamate a promuovere attivamente l’apertura istituzionale: i Programmi d’integrazione cantonali (PIC) dispongono già di un apposito modello e il Servizio per la lotta al razzismo (SLR) fornisce sostegno ai Cantoni nella sua attuazione. A questo proposito occorre garantire, tra l’altro, che un’istituzione rappresenti nella propria composizione tutta la popolazione.

 

Che cosa comporta la situazione attuale per il lavoro contro il razzismo in Svizzera? Si aprono nuovi margini di manovra?

AB: Le diverse manifestazioni svoltesi un po' in tutto il mondo ricordano alla Svizzera che non deve assolutamente allentare gli sforzi in questo ambito. Quello in corso da diversi anni è un lavoro di fondo, il solo metodo efficace in materia di lotta al razzismo. Si tratta di proseguire questo lavoro «tradizionale» e incessante di informazione, sensibilizzazione, decostruzione dei pregiudizi attuando al contempo politiche pubbliche che assicurino a ciascuno condizioni di parità di trattamento e di accesso alle prestazioni dello Stato e dando altresì prova di flessibilità e innovazione per contrastare le nuove espressioni di xenofobia, quali il razzismo online. Il Cantone di Vaud ha dunque lanciato sulle reti sociali la campagna «Stop racisme» il cui obiettivo è di ricordare a ognuno la propria responsabilità su questi canali.

AW: Era da tempo che in Svizzera non si discuteva più in modo così intenso e diversificato del razzismo. Alcuni aspetti del dibattito, come il profiling razziale, la discriminazione strutturale e le discriminazioni vissute quotidianamente dalle persone interessate sono stati e continuano a essere fruttuosi per il lavoro contro il razzismo; altri temi, per esempio il dibattito sulle teste di cioccolato («moretti»), hanno invece suscitato incomprensione nella popolazione. Ciò che mi ha sorpresa positivamente è che sia stato possibile dar vita a un dibattito pubblico su quanto la nostra società occidentale e il nostro benessere poggino sull’eredità lasciataci dal colonialismo di stampo razzista e dalla schiavitù, su quanto gli stereotipi razzisti di quell’epoca continuino ad agire nella società e sul fatto che anche la Svizzera debba analizzare il proprio ruolo all’interno di questo sistema. L’importante, ora, è persistere in questa direzione.
Sulla scia del dibattito pubblico sul razzismo, in Parlamento sono stati depositati alcuni interventi in materia, di cui due che chiedono per esempio una migliore protezione contro il profiling razziale. Un tema che, strano a dirsi, è stato sollevato pochissimo è l'assenza, nel diritto civile, di una protezione efficace contro la discriminazione. Già nel 2010, nella sua analisi «Tutela giuridica dalla discriminazione razziale», la Commissione federale contro il razzismo (CFR) aveva mostrato che le basi legali in Svizzera non garantiscono una protezione sufficiente dalla discriminazione razziale e che la necessità d’intervento è impellente. Ad oggi, però, è fallito qualsiasi sforzo in Parlamento volto a introdurre un miglioramento in tal senso. È importante cavalcare l’attuale dinamismo politico e sociale per fare finalmente un passo avanti in questo contesto.

 

Che cosa occorre affinché l’attuale dinamismo possa contribuire a migliorare a lungo termine la comprensione del razzismo e della situazione specifica in Svizzera?

AB: La lotta al razzismo deve restare parte integrante delle politiche pubbliche ed essere sostenuta da queste ultime. È fondamentale che gli sforzi compiuti nel lavoro d’informazione, spiegazione e chiarimento siano portati avanti con tutti i destinatari, dai professionisti ai semplici cittadini, dai giovani agli anziani. A tal fine occorre continuare ad assicurare alla lotta al razzismo i mezzi necessari per incoraggiare tutti gli attori istituzionali a partecipare, considerato che il razzismo è e rimane un tema trasversale. Infine, la Svizzera si è impegnata a livello internazionale a rispettare un determinato numero di obblighi e si è dotata di una norma penale contro la discriminazione razziale attraverso la quale s’impegna a proteggere i cittadini dalle manifestazioni di razzismo. Questa la sua sfida e la sua responsabilità.

AW: Il movimento «Black lives matter» contro la violenza della polizia e il razzismo negli Stati Uniti ha fornito un importante impulso da non sottovalutare. Per la prima volta dalle proteste contro il regime dei lavoratori stagionali tra la fine degli anni 1960 e i primi anni 1980 si sono di nuovo tenute in Svizzera proteste di massa contro il razzismo. Affinché questo movimento risulti fruttuoso a lungo termine anche per la Svizzera è importante adattare alla nostra società il discorso proveniente da oltre oceano. La portata delle violenze razziali da parte della polizia negli Stati Uniti non è infatti paragonabile alla situazione nel nostro Paese. Ciò nonostante, questa considerazione non deve portare a relativizzare i problemi presenti alle nostre latitudini, per esempio in fatto di profiling razziale. Nel contesto svizzero sarebbe inoltre riduttivo limitare il discorso al solo razzismo contro le persone di colore. Perché il dinamismo attuale possa sortire effetti a lungo termine, occorre collegare tra loro i vari ambienti e attori della lotta antirazzista. A tale scopo è necessario, tra l’altro, riconoscere che la «non appartenenza» assume forme sempre diverse e che la discriminazione razziale può colpire i più svariati gruppi. 

 
 
 

Ultima modifica 13.08.2020

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